domenica 25 settembre 2011

Giornate europee del patrimonio 2011

Nel 24 e 25 Settembre in occasione delle Giornate europee del patrimonio ho visitato il circuito del Museo di Roma, che si divide tra Palazzo Massimo, Terme di Diocleziano, Palazzo Altemps, Crypta Balbi e Museo Palatino.
Palazzo Massimo: ore 10. La guida ci spiega come originariamente il museo di Roma fosse collocato nella sede delle Terme di Diocleziano, poiché la campagna di scavi da cui proviene la maggior parte delle opere appartiene al periodo del Risorgimento (alcune statue, come l'Augusto di Prima Porta, si trovano in Vaticano perché venute alla luce quando ancora Roma non era capitale) e Palazzo Massimo allora non era sede museale -lo sarà solo nella seconda metà del Novecento.
La visita parte dalla stele funeraria dei Rabirii, proveniente dall'Appia e risalente al I a.C., che erano dei liberti e lo possiamo vedere dalla tipologia della stele (si affacciano come da una finestra), oltre dall'iscrizione che li dice liberti di Postumo. Sono marito e moglie; in un secondo momento è stata aggiunta una terza figura che forse è una loro discendente, ed è una sacerdotessa come si può intuire dalla patera (piatto su cui veniva versato il sangue sacrificale) e dal sistro.
Proseguiamo con la ritrattistica, che è collocata in senso cronologico e permette perciò di seguire l'evoluzione nella storia del ritratto, dal verismo medioitalico al naturalismo di matrice greca. Le statue femminili hanno inoltre pettinature ben definite: erano infatti le imperatrici a dettare legge in questo campo, perciò le matrone si allineavano nell'acconciare i capelli con lo stile della donna più potente. 
Passiamo di fronte alla statua di Augusto, da via Labicana, abbigliato come pontefice massimo o -come dice la guida- come semplice augure, e in questo caso si potrebbero sollevare dei dubbi sulla sua datazione (12 a.C.), che comunque slitterebbe di qualche anno. La statua è realizzata con due tipi di marmo: uno per la pelle e le zone non coperte dal mantello, l'altro utilizzato per il mantello. E' riconoscibilissimo come Augusto dal ciuffo a coda di rondine che caratterizza i capelli. Di sicuro la statua era stata pensata per essere appoggiata a qualche parete, dal momento che la parte posteriore è livellata. Nelle mani mancanti, forse reggeva una patera e un bastone. 
Il Generale di Tivoli è significativo perché offre lo spunto per parlare del rapporto tra Romani e Greci: nel secondo secolo a.C. Roma conquista la Grecia e nasce la famosa querelle se sia opportuno imitare i Greci oppure seguire ligiamente il mos maiorum (Catone VS Scipioni); chi opta per la prima opzione non evita di farsi raffigurare nudo, anche parzialmente, come questo generale (si capisce che è un militare dalla lorica posta in basso) dal fisico scolpito che contrasta rispetto al viso,  visibilmente anziano (si tratta comunque di un ritratto propagandistico). Questa statua risale al I secolo a.C. e pertanto non rientra propriamente nel periodo di conquista della Grecia. 
Il Principe Ellenistico invece rientra perfettamente nel discorso, perché è raffigurato completamente nudo e risale al II secolo a.C. La testa in proporzione è più piccola rispetto al corpo.
Passiamo di fronte al famoso -e splendido- bronzo del pugile, che porta nel viso i segni della lotta.
Saliamo al secondo piano, dove osserviamo la differenza tra le erme di Traiano e quelle di Adriano: le prime sono contrassegnate in modo più marcato dal verismo, le seconde sono invece più idealizzate.
Esaminiamo adesso alcuni ritratti dei Flavii: due di Vespasiano, uno di Domiziano (raro trovare quest'ultimo a causa della damnatio memoriae che lo colpì, come ci dice la guida). I Flavii operano una politica che prevede la restituzione di luoghi sottratti in precedenza al pubblico, in più arricchiti da nuove strutture, come il Colosseo o anfiteatro Flavio. Dei due ritratti di Vespasiano, uno era destinato al pubblico e un altro era privato. 
Infine ammiriamo l'affresco della Villa di Livia -moglie di Augusto- di Prima Porta: si tratta di una sala da pranzo ipogea trasportata nel sito museale perché nel luogo originario rischiava di deteriorarsi a causa dell'umidità. L'affresco è stato tolto dalla parete d'origine con la tecnica a strappo, e l'intera stanza è stata ricostruita nel museo. Si tratta di un trompe l'oeil che raffigura un giardino senza soluzione di continuità ma con spunti che introducono la varietà, come un recinto in muratura che viene simulato nel dipinto. Viene qui raffigurata non una stagione in particolare, ma quasi tutte le stagioni insieme, con flora e fauna tipici dei diversi periodi dell'anno, come in un immaginario Eden (e proprio alla cosiddetta età dell'oro si riferisce l'affresco, quell'età mitica che Augusto doveva far tornare dopo il periodo delle guerre civili). L'illuminazione del presunto lucernario viene qui riprodotta, per fare in modo che la stanza appaia più possibile come in origine. Gli affreschi, evidentemente famosi già nell'antichità, fornirono il modello per quelli presenti a Pompei.

Ci spostiamo ora nel vicino polo delle Terme di Diocleziano, che è l'originaria sede del Museo di Roma prima che Palazzo Massimo fosse aperto al pubblico. Ancora oggi custodisce numerosi reperti, per lo più epigrafi. Subito ci dirigiamo per vedere il chiostro michelangiolesco, anche se venne affidato a Michelangelo pochi anni prima della morte e pertanto è stato per lo più realizzato dai suoi allievi.



Ci dirigiamo verso l'aula X, da poco riaperta al pubblico. Nella famosa esposizione del 1911 questa aula era stata destinata a raccogliere tutti i monumenti funerari. Perciò sono qui riuniti 3 elementi architettonici, imponenti, destinati anticamente a luoghi tombali. C'è il sepolcro cosiddetto dei Platorini, anche se in realtà non è sicuro che appartenga a questa famiglia, poiché dubbia è l'attribuzione dell'epigrafe che vediamo nella parete frontale.


Ai lati sono state collocate le stateue di Sulpicio Platorino e sua figlia. 
Altre due tombe a camera -praticamente degli enormi cubi scavati nel tufo- sono state portate qui (presso un angolo della sala un filmato dell'istituto Luce mostra il ritrovamento degli anni '50 sulla Via Portuense): in una ci sono degli splendidi stucchi sul soffitto, in un'altra degli affreschi (uno di questi raffigura una misteriosa figura con girello). In entrambe le tombe sono presenti delle nicchie dove venivano poggiate le olle dei defunti.



Dalla planimetria qui riportata delle Terme di Diocleziano, vediamo che in origine queste erano un complesso enorme. Osserviamo come nell'originario frigidarium (luogo destinato all'acqua fredda) sia oggi collocata S. Maria degli Angeli e dei Martiri, la basilica che in effetti riproduce all'interno il modulo termale, e apprendiamo che l'enorme esedra delle Terme è oggi piazza della Repubblica, in precedenza appunto chiamata piazza Esedra. L'aula X, dove ora ci troviamo, corrisponde a uno spogliatoio.
Ci spostiamo ora nell'edificio adiacente, dove in una prima stanza sono raccolti tutti i materiali per realizzare le epigrafi nonché esempi di epigrafi. 



Vediamo ora l'epigrafe di Gabi, incisa su una olla che è una copia dell'originale comunque presente nel museo, risalente alla prima metà dell'VIII secolo a.C., il che la rende il primo esempio di scrittura alfabetica nella penisola: leggiamo "Evoè" (la scritta comunque è variamente interpretata), l'invito a bere che poi è anche un omaggio a Bacco.


E' la volta ora di una copia del Lapis Niger, di cui la guida ci legge un pezzo, che suona tipo (sacros esto sta per sacer es) "maledetto chi lascia passare le giovenche aggiogate davanti questo luogo in questo giorno", cosa non difficile perché il luogo originario del Lapis si trova non lontano dal Foro Boario.



Vediamo ora un'iscrizione che leggiamo in greco, ma -a sorpresa- tra le parole greche come kuroi spunta un'enclitica -que, per unire le parole Castore e Polluce. E' il passaggio dal greco al latino... i latini impararono l'alfabeto dai greci e un po' alla volta lo fecero proprio. L'iscrizione proviene da Lavinio ed è databile al VI a.C.


Infine la guida ci mostra un'armatura, dove a elementi tipici quali makaira (spada tipo sciabola) e corazza si affianca uno strigile (sorta di cucchiaio che serviva a togliere la cera mista a sudore) e un disco (per il lancio), che sono caratteristici greci, a testimonianza del fatto che in realtà rapporti tra Greci e Romani e reciproche influenze c'erano da ben prima del II secolo a.C.


Da Ariccia: delle splendide statue di altezza inferiori al metro (cosiddette tre piedi), raffiguranti Demetra e due sacerdotesse. Nella stessa sala, due mezzobusti (tipologia rara di statue) raffiguranti Persefone o Kore e la madre Demetra, dai ricchi e vistosi gioielli, probabilmente da riferire all'ambiente magnogreco.




Ci viene ora mostrata l'iscrizione che riferisce di una donna che salvò il marito dalle persecuzioni. Il marito qui ricorda la donna nell'epigrafe funebre enumerandone le molteplici qualità. La guida dice che gran parte delle epigrafi funerarie si avvalgono di frasi fisse, perciò anche se all'inizio possono stupire dopo un po' se ne riconoscono gli stilemi fissi, ergo quando questi non vengono rispettati (e accade che non lo siano) sono una novità e possiamo considerarli come espressione di un sentimento autentico.


Osserviamo adesso delle maledizioni che venivano arrotolate per essere poste o nelle tombe dei morti o presso le fontane (perché entrambi i luoghi erano comunicanti con il mondo degli inferi, alle cui divinità chi scriveva la maledizione si rivolgeva): si tratta di tutta una serie di sventure che venivano augurate al rivale in amore, nello sport e così via.


Altre iscrizioni mostrano i sentimenti allo scoperto: in una un patrono rimpiange la liberta ormai morta, unendo a frasi topiche altre che invece non rientrano nella tipologia specifica (ne loda le gambe, i seni, l'avvenenza fisica e sostiene che ormai non c'è più vita senza di lei). E' il cosiddetto elogio di Allia Potestas.


Le epigrafi sono poste in senso cronologico e ci accorgiamo che entriamo in epoca cristiana quando cominciamo a leggere le date della morte, inizio di "nuova vita" secondo i cristiani. Altre epigrafi invece recano simboli ebraici, come il candelabro a sette braccia. Per esempio in questa, che recita "Qui riposa Faustina".

L'ultimo angolo visitato ospita i reperti appartenenti al culto di Anna Perenna, che sono stati portati alla luce proprio dalla nostra guida, in una zona dei Parioli. Anche qui, presso una fontana, sono state ritrovate delle maledizioni e delle strane bamboline, tipo quelle voodoo, fatte di frumento, all'interno di contenitori di metallo.


Il giorno seguente la guida ci attende alla Gnam, dove il percorso si limiterà a una selezione di tele ottocentesche o inerenti i temi del Risorgimento. La prima è di Domenico Induno: "L'arrivo del bollettino della pace di Villafranca", di cui la guida isola alcuni significativi particolari, dopo averci illustrato il retroscena storico: la bandiera italiana, il garibaldino, il realismo dei personaggi.


Il secondo quadro è di Giovanni Fattori: "Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta".
Vincitore di un concorso, raffigura un momento in cui le crocerossine portano aiuto ai feriti.


Gioacchino Toma, "Luisa Sanfelice in carcere". Qui viene narrato il dramma di una donna condannata a morte per aver cospirato contro il governo borbonico. L'artista la raffigura incinta, ma la donna non lo era: era un'espediente per rimandare la pena di morte. In effetti rimase in carcere cinque anni prima di essere giustiziata. 
Ancora Fattori, con "La battaglia di Custoza" e Morelli, "I Monaci".


La notevole grandezza delle tele era richiesta dalla necessità di riempire le ampie pareti nobiliari dell'epoca.
Ammiriamo un busto di Ercole Rosa, che raffigura Garibaldi, il quale realmente posò per lo scultore. Una sala è dedicata interamente al Palizzi, di cui la guida ci illustra il rapporto con l'arte. Era certosino ma fino all'ultimo si dichiarò insoddisfatto dei suoi lavori. In punto di morte dichiarò che avrebbe voluto rifare tutto.

Infine osserviamo alcune tele del periodo futurista di Giacomo Balla e alcune sculture di Medardo Rosso (ai quali la Gnam dedica una parte del secondo piano). Ecco qui, del primo: "Autodolore", "La bionbruna", "Noi quattro allo specchio".