Sabato ho colto al volo l'opportunità della Settimana della cultura per prenotare una visita guidata alla GNAM, la Galleria nazionale d'arte moderna di cui già ho parlato in occasione della mostra sui preraffaelliti.
Raggiunta la sede, la guida ci informa che ci illustrerà la parte della GNAM dedicata all'arte contemporanea. Ha scelto una rosa di autori particolarmente rappresentativi: ecco perciò Capogrossi, di cui la galleria ospita diversi lavori, che testimoniano il suo percorso artistico, da un'esperienza tonale alla ricerca di un segno spaziale e temporale che viene definito in molti modi, pettine o forchettone, per esempio. Questo segno viene ripetuto all'infinito, in tutte le dimensioni, combinazioni e colori possibili... è come una lettera dell'alfabeto con cui l'artista vuole comunicare. La guida dice che non ne ha mai inventata un'altra dopo questa, come se ancora non avesse ancora avuto modo di esprimersi completamente con questa forma, ossia aveva ancora tanto altro da dire mediante l'uso del "pettine".
Dopo averci parlato delle terracotte policrome di Leoncillo, ci illustra l'opera dell'astrattista Afro Basaldella. Di Gastone Novelli, che ha preso parte alla Resistenza, focalizza l'esigenza della riflessione sulla libertà di parola, centrale nelle opere che ci vengono mostrate.
Di Lucio Fontana ci mostra i -come li chiamo io- "quadri squarciati": sono quadri che presentano un taglio profondo nella tela. Non si tratta di una violenza che viene direzionata sul supporto, ma dell'intenzione di mostrare cosa c'è al di là della tela... la guida infatti ci dice che lo squarcio è nel senso opposto rispetto a quello che ci si presenterebbe se fosse quello il lato su cui l'artista ha prodotto il taglio. Fontana dopo aver tagliato la tela la rimontava al contrario, perché fosse chiara la sua intenzione di far in modo che lo spettatore si chiedesse cosa c'è dietro la tela.
Mi ha divertito Domenico Gnoli, che ha respirato arte fin da quando è nato e si è trasferito in gioventù a New York, rimanendo folgorato dalla Pop Art: un suo quadro mostra un copriletto che assurge alla dignità del Cristo morto del Mantegna... oggetti di uso comune come una cravatta, che vengono riproposti in bronzo, presentano aspirazioni quasi metafisiche (non è la cravatta, ma l'idea della cravatta quella che si mostra). Anche Il muro, che presenta della sabbia mischiata al colore, è interessante.
Come interessante è Enrico Castellani: il bianco domina nelle sue opere, così come le ombre e le geometrie. Opere formate da cotone incasellato, oppure da impronte digitali, a ribadire l'unicità dell'individuo.
Ma sicuramente quello che più mi è rimasto impresso è Alberto Burri. Lui non ha studiato all'Accademia, non ha respirato arte da quando è nato, ma viene da forti e vitali esperienze: un medico in tempo di pace, poi in tempo di guerra; fu anche costretto a vivere in un campo nel Texas, deportato dagli americani. Qui matura la decisione di trasmettere attraverso l'arte quella che è stata la sua esperienza di vita. Usa per esempio come supporto per le sue opere d'arte dei vecchi sacchi, come quelli che servivano a portare patate per i prigionieri, o anche plastiche bruciate. Nei materiali si aprono ferite che l'artista ricuce, a simboleggiare suture della vita, ferite che si aprono rosse nella materia, sineddoche di sofferenza e dolore. Ci viene detto che la prima opera di Burri esposta alla GNAM e in Italia fu per interessamento di Palma Bucarelli, direttrice della GNAM per oltre trent'anni: fece scandalo perché si dubitava che si trattasse di arte... ci fu addirittura un'interrogazione parlamentare dal momento che si ipotizzava uno spreco di denaro pubblico. A distanza di anni, ora che in tutto il mondo Burri è un autore esposto nei musei, non ci sono più dubbi su chi avesse ragione. Questo è il "grande sacco".
Queste opere mi avevano colpito già nella mia prima visita alla GNAM, ma sono particolarmente grata alla guida che me le ha rese più intellegibili e quindi vicine, familiari.
Domenica mattina è invece il turno del Museo Hendrik Christian Andersen, sito in via Mancini. Si tratta di una casa-museo: in questo villino -progettato da lui stesso- è vissuto un artista di origine norvegese, che lavorò a Roma e che coltivò un sogno rimasto irrealizzato. La villa si chiama "Helene" come la madre di Hendrik.
La guida ci accoglie -siamo solo in due ad aver usufruito della possibilità di una visita gratuita- illustrandoci le foto che mostrano Hendrik, i suoi due fratelli, i suoi affetti, tra cui spicca la ricca cognata che sempre lo supportò finanziariamente e Henry James, il famoso scrittore con cui Hendrik era in ottimi rapporti. Passeggiamo tra le stanze avvolte di quello che evidentemente doveva essere il colore preferito dell'artista: il rosa pallido, colore che domina anche all'esterno del villino, decorato e stuccato in stile liberty. Al secondo e al terzo piano la famiglia Andersen (che, per inciso, non ha alcun legame di parentela con il noto scrittore di fiabe) viveva, ma attualmente il museo ospita al secondo piano una mostra temporanea (anche se la guida precisa che nell'intervallo tra le mostre temporanee si ripristina l'originario arredamento della casa) dal momento che il museo fa parte del circuito della GNAM, mentre il terzo piano è sede degli uffici.
Al piano terra c'è invece da un lato lo studio espositivo, dove l'autore accoglieva i futuri committenti, e dall'altro lo studio vero e proprio dove invece lavorava. Entrambi gli spazi sono ricchi delle opere dell'artista, che era pittore ma soprattutto scultore. Le sue opere sono neoclassiche, monumentali, perennemente improntate alla ricerca del bello e del giusto, incarnazioni degli ideali di famiglia, amore, futuro. Abituali soggetti sono un uomo e una donna, più spesso con un bambino, che è sia frutto dell'amore che preludio a un futuro che si spera e si preannuncia roseo. I volti sono idealizzati, perché Andersen non aveva grande interesse per la ritrattistica. Anche i corpi sono ideali, infatti la guida rivela che per rappresentarli egli si serviva di più modelli, cui rubava le parte migliori ai fini della raffigurazione. Imponenti sono i gruppi usati per l'esposizione della GNAM del 1911, in occasione della celebrazione del cinquantenario dell'unità, come questo Giacobbe e l'angelo.
I miei preferiti sono comunque i gruppi la Notte e la Sera. Questi gruppi, assieme al Giorno e al Mattino, rappresentano sempre una figura centrale e svettante e quattro figure secondarie ai suoi piedi. Nel caso della Notte e della Sera, la figura centrale è una donna, negli altri due è un uomo. La figura femminile della notte, che avvolge con i suoi capelli gli uomini ai suoi piedi, è veramente evocativa.
Inoltre nelle sue figure è frequente il protendersi verso l'alto: l'aspirazione ad andare oltre, a migliorarsi, a elevarsi. Questo lo costringeva a progettare con cura la realizzazione per via dei problemi di equilibrio (usava anche del ferro per fissarle meglio internamente).
Ma ciò che ispira simpatia e rispetto per l'artista è il suo progetto -mai realizzato- per una città dedicata all'arte, una città progettata interamente -con la collaborazione di un architetto- e i cui progetti sono conservati nel museo. Un "centro mondiale per la comunicazione", un luogo in cui si potesse discutere di arte, cultura, religione. Grandi spazi dedicati all'attività fisica: un'enorme piscina, per esempio... un sistema di canali e una fontana monumentale, detta "della vita", in cui sarebbero andati a collocarsi alcuni dei gruppi bronzei realizzati da Hendrik. Che cercò a lungo di farsi finanziare il progetto -anche da Mussolini, nella zona dell'EUR-, ma non ci riuscì, consegnando perciò alla sua casa il ricordo di un sogno irrealizzato: l'arte può cambiare in meglio l'uomo.
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